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Il business dell’immondizia: chi ha interesse a tenere Roma sporca?

Il business dell’immondizia: Roma, capitale d’Italia e cuore della civiltà occidentale, è oggi un simbolo di degrado urbano e inefficienza amministrativa. Nonostante un flusso continuo di promesse elettorali e piani straordinari, la città eterna si conferma tra le peggiori d’Italia per la raccolta e la gestione dei rifiuti. Cassonetti stracolmi, discariche abusive e una raccolta differenziata che non decolla sono solo la punta dell’iceberg. Ma perché Roma non riesce a uscire da questo tunnel?

Un fallimento strutturale: tra sprechi, assenza di impianti e rimpalli politici

Roma produce ogni anno circa 1,6 milioni di tonnellate di rifiuti, ma non ha un sistema impiantistico in grado di trattarli autonomamente. Dopo la chiusura della discarica di Malagrotta nel 2013, il sistema è collassato. La città ha cominciato a spedire i propri rifiuti in giro per l’Italia e persino all’estero, con costi esorbitanti a carico dei cittadini. Ogni crisi degli impianti—da Rocca Cencia a Salario—ha avuto effetti immediati e visibili per le strade: immondizia in decomposizione, topi, gabbiani e insetti ovunque.

Le colpe del passato e l’eredità avvelenata

Durante le giunte precedenti, da Alemanno a Marino, fino a Raggi, AMA (l’azienda municipalizzata dei rifiuti) è stata teatro di scontri politici, nomine opache, piani industriali falliti e assenza di investimenti. La giunta Raggi, in particolare, nonostante l’enfasi sulla raccolta differenziata, non è riuscita a costruire alcun nuovo impianto e ha visto il collasso del sistema già precario.

Gualtieri, tra promesse disattese e progetti bloccati

Eletto nel 2021, il sindaco Roberto Gualtieri aveva promesso una svolta. Aveva annunciato la costruzione di un termovalorizzatore a Santa Palomba entro il 2026, con l’obiettivo di risolvere definitivamente il problema del trattamento dei rifiuti. Ma a tre anni dall’annuncio, il cantiere non è ancora partito. Mentre Roma affonda tra l’immondizia, il progetto resta sulla carta, impantanato tra proteste dei comitati locali, incertezze sui finanziamenti e opacità sui rapporti tra Campidoglio e imprese appaltatrici.

Uno degli aspetti più controversi riguarda i rapporti privilegiati del Campidoglio con alcune grandi multiutility, in particolare ACEA e Hera, due colossi del settore ambientale ed energetico. Gualtieri è un fervente sostenitore del coinvolgimento di queste aziende nella gestione dei rifiuti, tanto da sollecitare ogni anno la Regione a firmare accordi interregionali per trasferire l’indifferenziato fuori dal Lazio, aggirando gli impianti regionali disponibili.

Una domanda sorge spontanea: perché Roma non utilizza gli impianti del Lazio, che potrebbero contribuire a smaltire parte dei rifiuti cittadini, e sceglie invece di spedirli ad impianti come quello DECO di ACEA in Abruzzo? L’impianto di Chieti, infatti, riceve ogni mese centinaia di tonnellate di rifiuti da Roma, contribuendo a riempirlo ben oltre i livelli previsti, secondo i dati ARTA Abruzzo. Questa scelta ha un impatto diretto sui costi sostenuti da AMA e quindi dai cittadini, e avvantaggia un soggetto privato come ACEA, che già detiene partecipazioni strategiche nel servizio idrico e nei rifiuti.

Un dettaglio tutt’altro che trascurabile è che ACEA è controllata in parte significativa dallo stesso Comune di Roma, che ne detiene oltre il 51% delle azioni. Questo crea una dinamica in cui la Capitale, invece di rafforzare il sistema pubblico dei rifiuti sul territorio laziale, dirotta i flussi verso un’azienda partecipata ma che agisce come soggetto industriale autonomo, con profitti derivanti dal trattamento dei rifiuti extra-regionali.

Uno dei punti più discussi riguarda l’attenzione particolare che Gualtieri continua a riservare alle grandi multiutility, in particolare ACEA (controllata dallo stesso Comune di Roma) e Hera. Aziende che, nel tentativo di “risolvere” l’emergenza rifiuti romana, hanno però aumentato i prezzi dello smaltimento di oltre 100 euro a tonnellata, con effetti diretti sulle casse di AMA e, di riflesso, su quelle dei cittadini romani.

Dietro questo emergono benefici per quattro impianti del Lazio, che hanno visto aumentare il flusso e i margini economici legati allo smaltimento. Si tratta degli impianti di Malagrotta (E. Giovi S.r.l.), Rocca Cencia (AMA), Guidonia (Ambiente Guidonia S.r.l.) e Viterbo (Ecologia Viterbo S.r.l.)

Chi ci guadagna se Roma resta sporca? Il lato oscuro dell’emergenza rifiuti

Dietro l’immondizia che si accumula per strada, dietro i cassonetti bruciati e gli impianti saturi, si muove un mondo di interessi, appalti opachi e mancate decisioni. Il degrado non è solo una conseguenza dell’inefficienza: per qualcuno, è una fonte di profitto. Il sistema dei rifiuti romano è oggi un gigantesco meccanismo che coinvolge aziende, cooperative, trasportatori, impianti privati e consorzi. E a tenerlo in piedi non è l’efficienza, ma l’emergenza.

I trasporti fuori regione: un affare milionario

Ogni anno, secondo dati AMA e ARPA Lazio, oltre 600.000 tonnellate di rifiuti indifferenziati vengono spediti fuori città o fuori regione, a costi altissimi. Ogni tonnellata costa in media 150-200 euro solo per il trasporto e lo smaltimento, cifre che lievitano in caso di emergenze o rotture degli impianti. A chi finiscono questi soldi? A un sistema di ditte appaltatrici che spesso si aggiudicano incarichi tramite affidamenti diretti o gare lampo, grazie a “stati di necessità” dichiarati ciclicamente da AMA o dal Comune.

Alcuni di questi operatori hanno sedi in Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, ma anche in Austria e Germania, dove Roma ha spedito parte dei suoi rifiuti tra il 2017 e il 2020. Il paradosso? Costruire un termovalorizzatore costerebbe meno, ma eliminerebbe il giro d’affari.

Le cooperative e il sottobosco degli appalti AMA

AMA affida ogni anno centinaia di milioni in appalti esterni per servizi che non riesce più a gestire internamente: spazzamento, raccolta nei mercati, lavaggio cassonetti, potature. Una parte consistente va a cooperative sociali o consorzi temporanei che operano spesso senza controlli rigorosi e con risultati scadenti. Il sistema degli affidamenti, denunciato più volte dalla Corte dei Conti e dall’ANAC, è permeabile a clientelismo e logiche opache.

Alcuni ex dirigenti AMA parlano apertamente di “un sistema che si regge sul disservizio, perché ogni emergenza crea una nuova spesa”. E il costo, naturalmente, lo pagano i cittadini.

Il ritardo negli impianti: una scelta più che un problema

Il progetto del termovalorizzatore di Santa Palomba è emblematico. Gualtieri lo annuncia nel 2022, lo definisce “strategico per la sovranità ambientale di Roma”, ma nel 2025 non c’è nemmeno il cantiere. Non è solo burocrazia: bloccare l’impianto conviene a chi trae profitto dall’attuale instabilità. Un’infrastruttura del genere, una volta in funzione, azzererebbe molti affari secondari: trasporti, intermediari, stoccaggi temporanei, affitti di aree industriali, subappalti di emergenza.

Come ha dichiarato l’ex assessore regionale all’Ambiente, Mauro Buschini, nel 2023:

“A Roma l’emergenza non è un problema da risolvere: è un business da alimentare. Ogni proroga, ogni ritardo, ogni rinvio, arricchisce qualcuno.”


In sintesi: la “monnezza” romana non è solo sporcizia, è economia. È un sistema costruito sull’emergenza continua, dove il degrado diventa occasione, l’inefficienza una rendita, e la politica un attore silenzioso che preferisce non decidere.

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