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Padri sotto accusa: il prezzo delle false denunce

False denunce, tradimenti taciuti e figli usati come arma: così alcune donne manipolano la separazione e fanno delle aule di giustizia il loro terreno di conquista.

Nel Paese dove la parola “femminicidio” è diventata il lasciapassare per ogni forma di impunità preventiva, c’è una verità taciuta, ignorata e spesso volutamente sepolta: sono sempre più gli uomini a essere le vere vittime. Vittime non solo di false accuse, ma di un sistema intero che li punisce a prescindere, che crede alla donna a prescindere, e che li trascina in guerre giudiziarie da cui escono distrutti, anche se innocenti.

Basta anche solo un rinvio a giudizio che, è bene ricordarlo, non equivale a una condanna perché un uomo venga percepito come colpevole. In molti contesti conflittuali, soprattutto durante separazioni giudiziarie, questo passaggio tecnico viene interpretato come una vittoria simbolica da chi ha sporto denuncia, trasformando così un atto d’accusa in un’arma per influenzare l’esito della causa e l’opinione pubblica, anche quando le prove risultano deboli o controverse.

Nel contesto delle separazioni, però il copione è tragicamente noto a chi vive davvero le aule di giustizia: non è più l’uomo a tradire, ma è sempre più spesso la donna. E quando viene scoperta, non chiede scusa: rilancia con una denuncia per maltrattamenti, per violenza psicologica, per qualsiasi cosa possa spostare il baricentro della giustizia dalla realtà ai vantaggi processuali.

Sì, perché oggi non servono più i fatti. Basta un video montato ad arte, una chat decontestualizzata, una frase registrata senza contesto e magari suggerita da un avvocato più interessato al risultato che alla verità. Esistono – e lo sanno tutti nel settore – veri e propri “piani di attacco legale” preparati a tavolino: accuse calibrate, prove costruite, testimonianze indirizzate. La deontologia forense, in alcuni casi, viene calpestata nel fango delle parcelle.

E intanto l’uomo viene allontanato, emarginato, giudicato.

Le donne non denunciano solo, ma manipolano. In tanti casi, sono proprio loro a compiere atti di violenza psicologica e fisica. Ci sono uomini picchiati, umiliati, ricattati, ridotti al silenzio. Ma nessuno li ascolta. Perché un uomo che dice “mi ha colpito lei” viene deriso, o non creduto. Ma c’è di più: le madri che negano il diritto di visita ai padri, che alienano i figli, che li strumentalizzano contro il genitore “nemico”, stanno compiendo una violenza invisibile ma devastante. E la legge? La guarda, e tace.

Nel mezzo di tutto questo, c’è l’abuso più ignobile: donne che non hanno subito nulla, ma si presentano in tribunale da vittime. Con i video girati di nascosto (e magari montati insieme all’avvocato), con finte crisi emotive, con racconti costruiti che ricalcano modelli noti. Casi di separazioni che potrebbero essere serene vengono deliberatamente trasformati in guerre legali con un unico scopo: distruggere l’uomo, impedirgli di vedere i figli, spolparlo economicamente.

Le false denunce vengono fatte solo nel momento in cui serve colpire il partner

Ed è la stessa Corte di Cassazione ad aver acceso un faro su questa pratica distorta e opportunistica. In diverse sentenze, i giudici supremi hanno richiamato l’attenzione su un fenomeno crescente: l’uso strumentale della legge sul maltrattamento familiare (art. 572 c.p.) in contesti di separazione conflittuale. Una su tutte, la sentenza n. 12817/2022, in cui si sottolinea:

“L’avvio della procedura di separazione è spesso accompagnato da denunce il cui tempismo appare sospetto e il cui scopo è più processuale che penale.”

Tradotto: le denunce non vengono fatte prima, quando il presunto maltrattamento si verificherebbe, ma solo nel momento in cui serve colpire il partner nella causa di separazione. Serve ottenere la casa, i figli, il vantaggio negoziale. Serve anche, spesso, coprire i tradimenti o le colpe personali di chi accusa, capovolgendo la realtà.

Eppure, chi osa dirlo viene accusato di misoginia, chi lo scrive viene censurato. Mentre ogni anno centinaia di procedimenti penali per maltrattamenti e violenza domestica si chiudono senza condanne, senza prove, ma non senza danni. Uomini assolti, ma mai riabilitati. Padri strappati ai figli, ma mai risarciti. Famiglie distrutte da una giustizia che ha smesso di cercare la verità per sposare l’emozione di parte.

La narrazione unica delle “vittime donne e carnefici uomini” è diventata una trappola giudiziaria, un dogma mediatico e una colossale ipocrisia culturale.

Serve il coraggio di dire che sì, ci sono donne che commettono reati, che mentono, che abusano del sistema legale, che lo usano come strumento di vendetta. E serve una giustizia che non premi chi grida più forte, ma chi ha le prove. Che protegga le vere vittime, anche quando hanno la barba.

Perché la giustizia vera non ha genere. Ma quella italiana, oggi, ha decisamente una preferenza. E a pagarne il prezzo sono sempre troppo spesso gli uomini.

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