Biologico a ogni costo? Le contraddizioni di un’etichetta tra discariche dimenticate e siti contaminati
L’etichetta “biologico” ha un valore quasi sacro per molti consumatori: rappresenta una promessa di salubrità, sostenibilità, attenzione alla natura e, soprattutto, sicurezza. Un marchio che rassicura, distingue, giustifica spesso anche un prezzo più alto sul mercato. Ma cosa succede se quel miele o quell’olio, apparentemente perfetti, sono prodotti su terreni adiacenti a ex discariche mai bonificate o a siti industriali contaminati da decenni?
L’interrogativo è scomodo, ma necessario. Perché nel sistema europeo delle certificazioni biologiche, esistono zone grigie che difficilmente emergono nella comunicazione pubblica o nei bollettini degli enti certificatori. Zone in cui, pur nel rispetto formale delle regole, si rischia di tradire lo spirito stesso del “bio”.
Cosa significa davvero “biologico”?
Secondo il Regolamento (UE) 2018/848, che disciplina la produzione biologica e l’etichettatura dei prodotti biologici, un prodotto per essere definito tale deve rispettare una serie di criteri: divieto di utilizzo di sostanze chimiche di sintesi, assenza di OGM, rotazione delle colture, benessere animale, e in generale un sistema agricolo che promuova la biodiversità e la salute del suolo.
Ma tra le righe di questi regolamenti, ciò che colpisce è l’assenza di una valutazione sistematica del contesto ambientale in cui si opera. In altre parole: il regolamento prevede che non ci siano pratiche agricole dannose per l’ambiente, ma non prevede controlli obbligatori sui livelli di contaminazione dell’area agricola o delle zone limitrofe. E quando si parla di aree agricole che sorgono accanto a discariche, ex impianti industriali o siti contaminati da sversamenti pregressi, il rischio di contraddizione è evidente.
Siti inquinati e “orfani” ambientali: una realtà italiana diffusa
L’Italia è costellata di aree contaminate classificate come “siti orfani”: si tratta di ex zone industriali, discariche abusive o regolari, depositi dismessi, per le quali non è più possibile individuare un responsabile giuridico (impresa fallita, ente pubblico sciolto, ecc.). In questi casi, la bonifica – che raramente avviene in tempi brevi – ricade interamente sulle spalle delle amministrazioni pubbliche.
E mentre il procedimento si blocca per mancanza di fondi, burocrazia o semplice inerzia, aziende agricole possono continuare a operare legalmente anche a poche decine di metri da questi lotti contaminati, ricevendo certificazioni biologiche regolari. I loro prodotti entrano nella filiera agroalimentare con la dicitura “bio”, e finiscono sulle tavole dei consumatori.
Il punto cieco del sistema di certificazione
Gli enti certificatori, in Italia, sono soggetti accreditati presso il Ministero dell’agricoltura e controllati da Accredia. Essi conducono audit periodici presso le aziende, controllano documenti, pratiche agricole, tracciabilità dei semi e delle produzioni. Ma molti dei controlli si limitano al rispetto dei metodi di coltivazione e non includono analisi approfondite dell’ambiente circostante.
Il Regolamento (CE) n. 889/2008, ancora oggi spesso richiamato per aspetti pratici della certificazione, stabilisce che l’operatore debba adottare misure per evitare “contaminazioni accidentali” da sostanze vietate. Tuttavia, non chiarisce né chi debba verificare l’effettiva presenza di contaminanti né quali distanze o barriere siano sufficienti per escludere rischi ambientali legati, ad esempio, alla contaminazione delle falde acquifere, alla migrazione di metalli pesanti o a residui organo-clorurati.
In parole semplici: se il prodotto finito supera i limiti di legge per i contaminanti alimentari, è ritenuto sicuro. Ma se cresce accanto a un terreno da bonificare, nessuno lo dice.
La distanza che non basta: tra legge e realtà
È diffusa l’idea che mantenere una certa distanza dalle fonti di contaminazione basti a garantire l’integrità del prodotto. Ma la contaminazione ambientale non conosce recinzioni, né sempre rispetta i confini catastali. Le falde acquifere sotterranee possono trasportare inquinanti per centinaia di metri; le api, per la produzione di miele, possono percorrere fino a 5 chilometri in cerca di nettare; e sostanze come i PCB, i metalli pesanti o i pesticidi persistenti possono accumularsi nel terreno per decenni.
Uno studio pubblicato dall’ISPRA nel 2022 evidenziava come oltre il 60% dei campioni di suolo analizzati in prossimità di siti inquinati presentassero tracce di contaminanti superiori ai limiti previsti per l’uso agricolo, anche a distanza di anni dalla cessazione delle attività industriali o di discarica.
La promessa del biologico è ancora credibile?
Il concetto stesso di “biologico” dovrebbe andare oltre la semplice assenza di chimica in campo: dovrebbe garantire un’interazione armoniosa tra produzione agricola e territorio. E invece, in alcuni casi, si finisce per certificare come biologico un prodotto cresciuto in condizioni ambientali che di “naturale” hanno ben poco.
Questo non significa che ogni certificazione sia sospetta, o che tutti i prodotti bio siano a rischio. Significa però che il sistema andrebbe ripensato affinché tenga conto, in modo trasparente e rigoroso, anche della qualità ambientale del territorio in cui il prodotto nasce.
Un patto da rinnovare con i consumatori
Alla base del successo del biologico c’è la fiducia. Una fiducia che i consumatori ripongono non solo nella bontà del prodotto, ma nel sistema che lo certifica. Se il consumatore scopre che l’olio o il miele biologico che acquista è prodotto in prossimità di una ex discarica mai bonificata, è legittimo che si senta tradito.
Per questo, più che accusare singoli produttori – che spesso si muovono all’interno di un sistema opaco, se non ambiguo – è necessario sollevare una domanda pubblica e politica: vogliamo davvero che il marchio “bio” continui a essere un simbolo di trasparenza, qualità e sostenibilità? O siamo disposti ad accettare un “biologico di facciata”, che non guarda sotto la superficie?
L’agricoltura biologica è una delle risposte più importanti alla crisi ambientale e climatica. Ma se non è accompagnata da un’analisi seria del territorio, da controlli ambientali indipendenti e da una maggiore trasparenza verso i consumatori, rischia di perdere la sua credibilità.
La sfida è grande, ma imprescindibile: non basta coltivare senza pesticidi. Bisogna anche sapere dove si coltiva.
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